Ecco il ritratto di Marco Tullio Cicerone (conservato ai Musei Capitolini, al Palazzo Nuovo), il celeberrimo oratore capace di difendere con forza i valori della Repubblica e del mos maiorum, due parole latine che contengono i principi e gli ideali di giustizia, diritto e comportamento che dovevano connotare il vero Romano. Ecco dunque che questo ritratto in marmo ci permette di descrivere una delle personalità storiche più influenti, e famose, della Roma antica.

Cicerone dimostrò sempre nel corso della sua carriera politica quanto il suo obiettivo primario fosse quello di preservare la Repubblica, lo status quo e l'ordine politico della sua epoca, in cui una oligarchia senatoriale aveva sempre l'ultima parola e governava al meglio. Sicuramente per Cicerone la vita in politica fu un grande successo, un susseguirsi di cariche onorifiche e pubbliche che resero il suo cursus honorum perfetto ed esemplificativo della carriera pubblica a cui ogni romano avrebbe dovuto aspirare. Nonostante questo, però, Marco Tullio Cicerone non nacque da una famiglia nobile o senatoriale, in quanto fu la piccola città di Arpino (all'epoca comunque importante ma non quanto Roma), ad aver dato i natali a Cicerone nel 106 a.C. Fu ad Arpino che il nostro gettò le basi della sua straordinaria intelligenza e curiosità intellettuale, poiché da lì cominciò a studiare grammatica e retorica, arte oratoria e politica. Arrivò a Roma, come detto salì completamente la scala sociale sino ad essere eletto console nel 63 a.C., quando subito dovette fronteggiare la personificazione di tutti i pericoli a cui, secondo lui, la Repubblica andava incontro: Catilina.

Costui era un seguace di Silla, un dittatore di qualche anno prima con cui Cicerone ebbe a che fare e che credeva fermamente in una rivoluzione politica e sociale dell'Urbe, in cui al posto dell'oligarchia di stampo nobile ci sarebbe dovuto essere un governo più vicino alle istanze popolari e, soprattutto, con un uomo solo al comando. Quello che assomigliava a tutti gli effetti ad una dittatura non piacque mai a Cicerone, il quale però divenne popolarissimo anche tra la gente comune dopo le sue furiose orazioni, in Senato ed in pubblico, indirizzate a Catilina. Già prima Cicerone diede ampia prova di sé e delle sue certezze politiche quando, in Sicilia, con altre orazioni chiamate successivamente Verrine bersagliò di accuse Verre, governatore locale che utilizzò la sua carica per arricchirsi a dismisura malgovernando. Ma con Catilina, e la relativa scoperta della congiura che il nobile senatore (il quale per ben tre volte si era proposto alla carica di console senza mai essere eletto anche a causa di leggi avverse) decise di passare all’azione per detronizzare il potere repubblicano. Purtroppo però le parole stesse di Cicerone, la sua grandiosa arte oratoria, portarono il nostro ad essere ucciso. 

Nel biennio 44 - 43 a.C. si scagliò apertamente e senza paura contro Marco Antonio, nuovo uomo forte di Roma dopo la morte di Giulio Cesare (a cui Cicerone fu sempre avverso in quanto anche lui aveva un'idea assolutistica del potere). Le 14 orazioni che Cicerone promosse contro Marco Antonio passarono alla storia come Filippiche, e furono proprio quelle a condannare a morte l'oratore di Arpino. II suo nome, infatti, fu inserito come per primo nella lista delle proscrizioni, esperienza politica drammatica già vissuta ai tempi di Silla. Si trattava di una lista pubblica di nomi, redatta in questo caso dai triumviri Antonio, Ottaviano e Lepido attorno al 43 a.C., le cui sorti erano segnate: chiunque comparisse in quelle liste era automaticamente condannato a morte. Pare che Marco Antonio, nell’ambito degli accordi avuto con gli altri due sodali, pretese che il nome di Cicerone comparisse per primo sulla lista. Dopotutto Marco Antonio, in un periodo turbolento per Roma, a seguito dell’uccisione di Cesare, cominciò a prendersi troppe libertà, a prendersi troppi poteri e a combattere con le sue legioni anche guerre e battaglie non decise dal Senato. E per Cicerone il Senato, così come la Repubblica, erano tutto, erano un potere popolare e comunitario che non poteva essere scalzato. Per questo Cicerone fu ucciso dai sicari di Antonio, durante il suo tentativo di fuga che, purtroppo per lui, fallì miseramente. Si era rifugiato a Formia, in una delle sue proprietà, sebbene sino alla fine non perse mai la sua sicumera, la sua convinzione, la sua dignità ed autorità. Leggendo le parole di Plutarco, infatti, veniamo a sapere che "Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. Cicerone stesso infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate Filippiche". Pare, inoltre, che quando la testa di Cicerone fu portata a Marco Antonio come trofeo di guerra, la moglie di quest’ultimo, Fausta, fece un gesto sprezzante ed orribile allo stesso tempo: prese la testa di Cicerone, tirò fuori la lingua e la infilzò, con violenza, con un lungo spillone per capelli. Quella stessa lingua che aveva duramente attaccato Marco Antonio ed altri protagonisti della storia politica della Roma del I secolo a.C., quella stessa lingua che, in un modo o nell’altro, rivive ancora oggi negli innumerevoli scritti lasciati da lui, studiati e tradotti da migliaia di studenti ed appassionati ogni anno.

Leggendo le parole di Tito Livio, infine, possiamo comprendere quanto importante fosse la figura di Marco Tullio Cicerone nella sua epoca, un uomo che già allora fu considerato quasi un modello di virtù, un modello di uomo romano che combatteva per le sue convinzioni entro le cornici istituzionali che il governo dell'epoca gli dava. Ecco, dunque, il panegirico di Tito Livio in onore di Cicerone: "Visse sessantatré anni, tanto che la sua morte non parrebbe nemmeno immatura se non fosse stata violenta. Intelligenza feconda di opere e di successi, ebbe anche la sorte lungamente prospera, ma nella sua lunga e continua fortuna fu colpito talvolta da profende ferite – l'esilio, la rovina del suo partito, la morte della figlia, la fine così triste e crudele – e nessuna di queste avversità seppe sopportare da uomo, tranne la morte; che del resto, a un giudizio sereno, potrebbe sembrare meno indegna, pensando ch'egli non fu trattato dal suo avversario vittorioso per nulla più crudelmente di quel che avrebbe fatto lui se avesse vinto. Ma chi ne bilancerà i vizi con le virtù lo troverà grande e degno di memoria: un uomo il cui elogio soltanto l'eloquenza di Cicerone potrebbe degnamente celebrare".