La Chiesa di Santa Maria della Vittoria è uno scrigno barocco, che sa di policromie, stucchi e grande senso estetico. Una delle tante meraviglie di Roma che invito, da guida turistica, a visitare per comprendere molte cose sulla Città Eterna. Un modo come un altro, inoltre, per vedere, assolutamente in maniera gratuita, uno dei massimi capolavori dell'arte barocca e di Bernini. Ma andiamo con ordine. 

La Chiesa di Santa Maria della Vittoria sorse agli inizi del Seicento ed è gestita dai Carmelitani Scalzi, i quali sentono molto l’appartenenza a questa chiesa. Il motivo risale direttamente all’origine di questo luogo di culto che, come ispira il nome, deriva da una vittoria militare e, allo stesso tempo, miracolosa! Siamo nel 1620, nel corso della Guerra dei Trent’Anni, che vedeva fronteggiarsi l’esercito cattolico con quello protestante. Nel corso della cosiddetta Battaglia delle Montagna Bianca i cattolici erano in rotta, ma ecco intervenire il cappellano dell’esercito (un carmelitano), che usava andare in giro con, appesa al collo, un’immagine della Madonna con il Bambino visibilmente sfregiato (gli occhi, infatti, erano stati completamente bucati). Proprio dai fori dovuti agli sfregi, però, pare che una forte luce proruppe, talmente tanto da confondere i nemici e dare l’opportunità ai cattolici di vincere. Ed ancora oggi la navata centrale è incentrata su questo miracolo, o meglio sulla vittoria della Vergine Maria sulle eresie.  Se alzate gli occhi, infatti, vedrete un affresco del Cerrini (1609 - 1681), in cui ben si comprende il ruolo salvifico della Madonna. Potrete anche capire come, di rimando, questa visione della Vergine ci fa immediatamente pensare anche alla vittoria militare di cui accennavo in precedenza. Ma è tutto il complesso decorativo della chiesa a colpire. I suoi stucchi, le sue mura, la ricca controfacciata con l’organo, le cornici dorate e le pitture fanno di questa chiesa una vera perla rara. Per avere un’idea fu nel 1705 che i pilastri della chiesa furono completamente rivestiti di alabastro. Oltre a questo, dovete aggiungerci anche grandi nomi della storia dell’arte che prestarono le loro abilità per l’abbellimento della chiesa. Parlo delle pale d’altare del Domenichino, o del lavoro del Guercino. Ma, soprattutto, parlo della straordinaria meraviglia partorita dal genio del Bernini, situata nella Cappella Cornaro, sul transetto sinistro (a sinistra guardando l’altare). La cosiddetta Estasi di Santa Teresa è semplicemente sublime, con l’Angelo del Signore che, con pacatezza e amore, colpisce con la sua freccia Santa Teresa d’Avila, che ebbe modo di vivere le sue estasi, a stretto contatto con Dio. Una freccia che rappresenta il “fuoco di Dio”, come lei stessa scrisse. Tutto l’impianto della cappella è suggestivo: l’edicola in cui è inserito il gruppo scultoreo, la scelta dei colori che quasi guida l’occhio verso la santa, totalmente rapita dalla visione, con passione e forza, e le balaustra da cui si affacciano, come spettatori in un teatro, tutta la scena. Ecco, è proprio questa grande teatralità che riesce a dare Bernini il segreto di tutto il capolavoro. Non solo le straordinarie emozioni che sono proiettate completamente fuori dal marmo, grazie ai sentimenti espressi dal volto della santa e dall’angelo. Ma sono i colori, la luce che colpisce l’opera, proveniente da una finestrella nascosta avente un vetro giallo (come i raggi bronzei), che danno un senso di transitorio, di effimero. Come se si debba cogliere l’attimo, per poter davvero apprezzare tutta l’arte del Bernini, e l’estasi della sua santa. Capite per quale ragione questa chiesa, e questo capolavoro, meritano tutta la vostra attenzione? 

Concludo con le parole scritte di suo pugno da Santa Teresa, nel tentativo di spiegare a parole cosa aveva provato nel suo profondo contatto con Dio. Dico solo che è impressionante quanto Bernini abbia reso reale ciò che la santa aveva spiegato a parole: ”piacque a Dio favorirmi con la seguente visione. Un cherubino teneva in mano un lungo dardo d'oro, sulla cui punta di ferro, sembrava avere un po' di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese a più riprese nel cuore, cacciandomelo dentro fino alle viscere, che poi mi sembrava strappar fuori quando ritirava il dardo, lasciandomi avvolta in una fornace d'amore. Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscire nei gemiti, ma insieme pure tanto dolce da impedirmi di desiderarne la fine, e di cercare altro diversivo fuori che in Dio. Quando ero in questo stato andavo come fuori di me. Non volevo vedere, né parlare con alcuno, ma starmene sola con il mio tormento che mi pareva la gioia più grande di quante ve ne fossero nel creato”.